Palenque è uno dei più importanti siti archeologici Maya, per quanto forse non uno dei più famosi. Palenque è stata una città florida e ricca, la cui storia è durata all’incirca dal 100 avanti Cristo fino all’VIII secolo. Uno dei più grandi sovrani di Palenque fu Kʼinich Janaab Pakal, Ajaw (ovvero re) della città dal 615 al 683, anno della sua morte. Re Pakal è considerato uno dei personaggi più eminenti non solo di Palenque, ma anche dell’intera civiltà Maya. Basti pensare che ha regnato per oltre 60 anni, quasi un unicum nell’antichità. Ma non è il solo motivo per cui è noto ancora oggi: a far parlare è soprattutto il suo monumentale sarcofago e, in special modo, il suo coperchio.
La tomba di Re Pakal
La città di Palenque (che si trova in Messico, nello stato del Chiapas) dopo il suo abbandono venne letteralmente inglobata dalla vegetazione e dimenticata per secoli. La sua riscoperta avvenne nel XVI secolo, ad opera dei colonizzatori e in particolar modo di un frate, Pedro Lorenzo de La Nada. Fu lui a chiamare il sito “Palenque”, che vuol dire “fortezza”. Dovette passare però un altro secolo prima che l’interesse nei confronti di questo antico insediamento Maya portasse a scavi degni di questo nome. Furono redatte mappe e più tardi scattate le prime foto. Poco alla volta, si capì che ci si trovava in un luogo unico per la presenza di iscrizioni e manufatti di valore storico inestimabile.
Fu solo in tempi più recenti però, nel 1952, che l’archeologo Alberto Ruz Lhuillier fece una scoperta straordinaria. All’epoca il governo aveva sponsorizzato una spedizione a carico dell’INAH (Instituto Nacional de Antropología e Historia), e fu nell’ambito di quel progetto che Re Pakal mostrò la sua sepoltura. La tomba del sovrano era rimasta al riparo da saccheggiatori e predatori perché ben nascosta, quindi il corredo interno che aveva accompagnato il re nel suo viaggio oltremondano era pressoché intatto, così come il suo sarcofago.
Curiosamente, la tomba si trovava in un edificio che era già stato studiato e visitato parecchie volte, il cosiddetto “Tempio delle Iscrizioni”. Trovare l’ingresso alla camera sepolcrale, però, era tutt’altro che facile. Lhuillier notò una botola sul pavimento, chiusa da una pietra. Rimossa la pietra, scoprì la presenza di un passaggio che scendeva. Quel passaggio era stato volutamente ostruito con terra e pietre, e liberarlo chiese un lavoro che durò ben 2 anni. Ma ne valse decisamente la pena.
Al cospetto di Re Pakal
Nella camera sotterranea c’era il sarcofago di Re Pakal, un unico blocco di pietra di circa 20 tonnellate sormontato da un coperchio finemente intagliato. Il sepolcro era lungo 3 metri e largo 2; il coperchio era lungo quasi 4 metri. Intorno c’erano molte decorazioni, figure in stucco che rappresentavano nove guerrieri, che erano i nove livelli della vita oltre la morte. Il corpo del sovrano era riccamente adornato. In una mano aveva una sfera, nell’altra un cubo. Al suo collo vi era una collana, e sul suo volto una maschera funebre in giada. All’ingresso della cripta si trovavano altri cinque scheletri, i guardiani del sonno eterno del sovrano.
Si sa che fu Pakal stesso a volere quella costruzione: si pensa che il sarcofago e il suo coperchio si trovassero nella stanza prima che il resto dell’edificio gli venisse eretto intorno. Le dimensioni e il peso rendono impossibile pensare che qualcuno avesse potuto calarli lì successivamente. Ma la cosa non deve stupire, se si pensa che Pakal ebbe un’esistenza a dir poco romanzesca, e che tutto nel suo luogo di eterno riposo faceva pensare ad una deificazione, dopo la sua dipartita.
Re Pakal era salito al trono appena dodicenne, in un periodo in cui Palenque era in rovina. Una guerra con i temibili guerrieri Kaan aveva infatti distrutto gran parte del luogo, e decimato la popolazione. Dopo una breve reggenza di sua madre, il giovane sovrano dimostrò di non essere minimamente spaventato dalle responsabilità che lo attendevano. Quando i Kaan tornarono all’attacco, credendo di trovare una popolazione già piegata, vennero sconfitti e respinti. Da quel momento Re Pakal si dedicò a rendere ancora più bella e grande la sua città.
Un re quasi leggendario
Il regno di Re Pakal fu lungo, prospero e felice per gli abitanti di Palenque. Non stupisce che alla sua morte gli siano stati tributati onori divini: onori che comunque fu lui stesso a programmare, visto che se ne andò alla veneranda età di 80 anni, lasciando il trono a suo figlio. La civiltà di Palenque sarebbe sopravvissuta ancora per un centinaio di anni, per poi sparire tra le nebbie del tempo. Fino ai primi anni del 2000 era possibile visitare la tomba del re, ma poi, per preservarla, si è preferito chiuderla al pubblico. Presso il Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico si possono ammirare la splendida maschera di giada e una ricostruzione del sarcofago.
Il coperchio della sepoltura resta là sotto, al buio, in fondo al tunnel che, si dice, faccia entrare un raggio di sole al solstizio d’estate per illuminare il lungo cammino del re. Cammino che sembrerebbe immortalato proprio su quel sarcofago, che è oggetto di interpretazioni contrastanti. La prima lettura è allegorica: esso narrerebbe la trasformazione del re-uomo in divinità. Pakal si erge su un mostro della Terra, sfuggendo alle fauci aperte di un giaguaro, incarnando le fattezze di uno degli dei del grano. Sullo sfondo si vede l’albero della vita.
In alto ci sono l’Uccello Celestiale che siede tra le fronde dell’albero a forma di croce, che regge anche un serpente. Tutte le immagini allegoriche starebbero a significare che Re Pakal si muove tra due mondi, quello terreno e quello celeste, tornando a sedere tra i suoi antenati la cui linea di discendenza è iscritta attorno alla tomba. Anche la sua posizione peculiare, che è leggermente fetale, starebbe a simboleggiare la rinascita a nuova vita dopo la morte. Questa è la lettura corrente che si dà alla complessa iconografia del coperchio del sarcofago di Re Pakal.
Un’altra lettura, un po’ più audace
Nel 1968 Erich von Daniken scrisse un libro destinato a diventare un best seller, per quanto criticatissimo negli ambienti della scienza e dell’archeologia dogmatiche. Il suo titolo originale è “Erinnerungen an die Zukunft: Ungelöste Rätsel der Vergangenheit”, tradotto in italiano come “Gli extraterrestri torneranno” e in inglese “Chariots of the Gods? Unsolved Mysteries of the Past”. Qui lo scrittore svizzero avanza un’ipotesi che ancora oggi incontra moltissimi sostenitori: quella per cui le civiltà del passato abbiano avuto origine da visitatori celesti venuti da altri pianeti.
Nel suo libro, von Daniken analizza accuratamente il coperchio del sarcofago di Re Pakal. Secondo la sua interpretazione, quello che vediamo non è altro il viaggio di ritorno alla stella di origine su un razzo spaziale. Nessuna astrusa simbologia per un oltremondo ipotetico: il sovrano siede su un macchinario che manovra lui stesso, respirando attraverso un apparecchio di ventilazione. Dobbiamo ammettere che per noi moderni, dando una prima occhiata al disegno stilizzato, questa è la prima impressione che riceviamo. Naturalmente, gli ambienti ufficiali respingono nettamente questa ipotesi, ridicolizzandola.
Eppure è vero che ci sono tante cose che non ci sappiamo spiegare sulla civiltà Maya. Ad esempio, potremmo definire la sepoltura di Re Pakal “faraonica”. Prima della scoperta di questa tomba a Palenque, si pensava che i Maya non costruissero sepolcri. Oltre al corridoio che porta al sarcofago, esiste anche un passaggio definito “psicodotto” che si pensa servisse per la migrazione dell’anima del re. Nessuno però sa a cosa servisse realmente; anch’esso fa pensare ai corridoi presenti nella grande piramide di Giza.
Chi c’era davvero prima dei Maya?
La comunità scientifica tende ad arroccarsi su alcuni concetti che con il tempo diventano dei dogmi, pari a quelli di fede, dimenticando spesso che suoi membri eminenti, nel tempo, hanno avanzato ipotesi diverse. Ad esempio, potremmo citare le conclusioni a cui giunse il noto archeologo messicano Ramon Mena (1874-1957), secondo il quale le rovine di Palenque risalivano a 10 mila anni fa. Guillermo Dupaix (1746 – 1818) pubblicò dei tomi sulle antichità messicane, illustrate da Luciano Castaneda. I due avevano viaggiato attraverso i più importanti siti archeologici del Messico, terminando il loro viaggio a Palenque. Per Dupaix non c’era che una conclusione a cui giungere: quei luoghi erano stati costruiti dagli abitanti di Atlantide.
Dupaix è morto molto prima che Re Pakal mostrasse a tutti lo splendore della sua sepoltura. Su di lui c’è anche un altro piccolo mistero da sciogliere: il corpo che è stato trovato nel sarcofago, le sue ossa, sembrano appartenere ad un uomo molto più giovane, di soli 40 anni. Il re, invece, doveva essere vissuto almeno il doppio. Dunque, chi è sepolto davvero a Palenque? L’ipotesi per cui i denti, dal cui rivestimento è stata data l’età al corpo, fossero meno sciupati perché un sovrano mangiava meglio degli uomini comuni, sembra un pochino debole e poco convincente.
Secondo Ignatius Donnelly, uno studioso che per primo fece un’estesa ricerca scientifica sugli indizi che potevano portare ad avvalorare l’ipotesi dell’esistenza di Atlantide, gli stucchi di Palenque, in cui si mostrano uomini con i crani allungati, dimostrerebbero che anche qui si praticava questa usanza. Così come in Egitto, così come tra altri popoli antichi, che cercavano di ricreare in modo artificiale delle fattezze che erano state possedute, in modo naturale, da un’altra razza umana antecedente.
Uomini o extraterrestri?
Il sarcofago della tomba di Re Pakal è l’esempio lampante di come noi moderni tendiamo a voler sempre trovare una certa “ingenuità primitiva” nei popoli del passato. Le complesse incisioni vengono lette come l’allegoria dell’ascesa al cielo del sovrano: ma forse rappresenta qualcosa di molto meno elegiaco e di assai più concreto. Le numerose iscrizioni presenti a Palenque hanno raccontato tante cose agli archeologi, ma continuano a non svelare il mistero più grande di tutti. Chi c’era prima dei Maya, chi ha insegnato loro tante cose, come ha potuto una civiltà così evoluta venire fuori apparentemente dal nulla? Chi era davvero Re Pakal?
Per chi vuole spingersi fuori dai sentieri battuti ufficialmente, ci sono due possibili risposte. Entrambe sembrano fantasiose, ma non lo sono più di tante altre. La prima è quella degli antichi astronauti di von Daniken, che parla di visitatori extraterrestri giunti sulla Terra in tempi remotissimi. La seconda è quella che parla di Atlantide, una civiltà prima della civiltà che conosceva gradi di sofisticatezza evolutiva che ancora oggi noi a malapena sogniamo. C’è anche chi ha avanzato l’ipotesi per cui a Palenque si trovi parte della famigerata Hall of Records, la grande biblioteca atlantidea vista dal profeta dormiente Edgar Cayce.
Di certo non si può negare come la bellezza estrema dei decori che ricoprono il luogo dell’ultimo riposo di Re Pakal ci tocchi il cuore, e smuova anche qualcosa di ancestrale e atavico in noi, come una sorta di ricordo perduto. E quasi quasi ci piace pensare che quel corpo consunto dal tempo che si trovava nel sarcofago di pietra di Palenque non fosse davvero il Grande Re, e che lui invece sia ancora vivo da qualche parte, là fuori, in un angolo lontano di questo immenso universo da cui tutti noi, in un modo o nell’altro, siamo arrivati.
Fonti:
- https://www.ancient-origins.net/ancient-places-americas/palenque-and-great-temple-inscriptions-site-built-king-003370
- https://www.ancient-origins.net/history-famous-people/pakal-great-0014235
- https://www.ancient-code.com/the-mystery-of-king-pakal-did-he-lift-off-to-the-stars/
- https://www.atlasobscura.com/places/death-mask-of-pakal-the-great
- https://www.thoughtco.com/king-pakal-of-palenque-2136164
- https://atlantipedia.ie/samples/archive-3643/
- John Lloyd Stephens and Frederick Catherwood: Pioneers of Mayan Archaeology
- http://www.prweb.com/releases/2015/08/prweb12878728.htm