Qualcuno dice che gli archeologi traggono piacere dalle disgrazie altrui. Detta così suona un po’ macabra, ma non si può dire che quest’affermazione non abbia un fondo di verità. Basti pensare a Pompei: le catastrofi naturali, le tragedie improvvise permettono in qualche modo di “congelare il tempo” lasciando così intatte molte più cose, con il trascorrere dei secoli. A volte ciò che è accaduto è ben chiaro, come nel caso, appunto, di Pompei. Altre volte invece ci si trova davanti ad un vero e proprio “cold case”: un enigma che i molti anni passati dall’accaduto rendono ben arduo tentare di risolvere. Uno dei cold case più famosi dell’archeologia è quello che riguarda la città indù di Mohenjo-Daro.
Una città senza Re né Regine
Da quel che possiamo dedurre studiando i suoi resti, Mohenjo-Daro era una città con moltissime particolarità, almeno stando a ciò che appare oggi ai nostri occhi di uomini moderni. Gli antichi edifici furono rinvenuti negli anni Venti in Pakistan, nella Valle dell’Indo, e apparve subito chiaro che era tornato alla luce uno degli insediamenti della civiltà che fiorì in questa zona nell’Età del Bronzo.
Mohenjo-Daro fu fondata nel III millennio avanti Cristo, e la sua fine invece risale al 1900 avanti Cristo circa. Si tratta di una città imponente, che stupisce per la grande evoluzione tecnologica che i suoi abitanti dimostrano di aver posseduto. Ben prima che Roma anche solo pensasse alle opere idrauliche, Mohenjo-Daro era servita da una rete idrica impeccabile, che portava l’acqua corrente in tutte le case.
L’abitato appare diviso in due parti: una cittadella, la parte alta, in cui si trova una vasta costruzione fatta a vasche chiamata semplicemente il Grande Bagno, e che appare proprio come una vasta piscina coperta. C’è poi la parte bassa, la zona residenziale vera e propria. Prima anomalia riscontrata dagli archeologi: non c’è un palazzo, un tempio, un luogo qualunque che faccia pensare ad un governo centrale, o ad un potere religioso di qualunque tipo.
Un popolo pacifico dedito alla lavorazione dell’argilla
L’occupazione principale degli abitanti di Mohenjo-Daro, oltre ovviamente all’agricoltura e alla pastorizia, era la lavorazione dell’argilla. In città c’erano infatti numerose fornaci. Sono inoltre stati ritrovati utensili in bronzo, e sigilli e pesi che fanno pensare ad un’elaborata forma di commercio.
In generale tutti i ritrovamenti che sono stati fatti testimoniano una civiltà molto evoluta, quasi raffinata. Le statuette in argilla e terracotta, i monili, persino i giochi (è stato rinvenuta una sorta di antica plancia per gli scacchi) dimostrano che la gente che abitava qui era colta, urbanizzata, amava le cose belle e la pulizia.
La densità abitativa era infatti molto elevata, per un insediamento dell’Età del Bronzo: si calcola che qui vivessero circa 70.000 persone. Vigeva però una perfetta organizzazione da città stato, una forma di autogoverno estremamente avanzata per l’epoca. Mohenjo-Daro appare un’anomalia anacronistica, molto in anticipo anche su quelle che consideriamo oggi le civiltà più evolute del passato, come quella Egizia e quella Romana.
Mohenjo-Daro: il Monte dei Morti senza morti
Veniamo però all’enigma più macabro e inspiegabile sollevato dalla città. Il nome Mohenjo-Daro significa “monte dei morti”. Ma in tutta la zona non esistono tombe, né sepolture. Tra le case, le vie e le piazze, sono stati ritrovati solo pochi scheletri, una quarantina in tutto. Che fine abbiano fatto tutti gli altri abitanti è ignoto.
Cosa segnò la fine di Mohenjo-Daro? Mistero. Alcuni ipotizzano un’invasione, ma non ci sono armi né armature, nè gli scheletri hanno segni di morte violenta addosso. Sono però riversi faccia in avanti, come se stessero scappando da chissà quale orrore. C’è chi dice che i cittadini, semplicemente, se ne andarono, poiché il fiume aveva deviato il suo corso.
Anche questa spiegazione sembra poco convincente. Un simile accadimento avrebbe causato una pacifica diaspora ben organizzata, e non la fine di un’intera civiltà come, di fatto, è accaduto nella valle dell’Indo. C’è poi la teoria secondo cui i morti trovati riversi siano stati uccisi dall’esplosione di una o più fornaci.
Si pensa questo perché sui corpi sono state trovate tracce di carbonizzazione, segno che sono stati esposti ad un forte calore. Questo rende molto difficile anche dare loro una datazione precisa. Il calore che li ha investiti, però, sembrerebbe essere stato molto più forte di quello che avrebbe potuto produrre una sola fornace.
Un anacronismo cancellato all’improvviso
Ci sono altre cose curiose da annotare su Mohenjo-Daro. Alcune delle raffinate statuette rinvenute, che raffigurano uomini seduti e che qualcuno ha chiamato “Re-Sacerdote” (in modo inesatto, visto che la città non aveva né re nè sacerdoti), sono state distrutte e fatte a pezzi volontariamente. Come se qualcuno fosse rimasto infastidito dall’essere stato immortalato in un’icona.
La città aveva un suo alfabeto e una sua scrittura, che non sono stati decifrati. I simboli che usavano nella valle dell’Indo sono singolarmente simili a quelli del Rongorongo, il linguaggio usato dagli abitanti di Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, che si trova piuttosto lontana dal Pakistan.
Nasce così un’altra ipotesi, la più fantascientifica, certo, ma non meno valida di ognuna delle altre, in mancanza di certezze. David Davenport, un ricercatore inglese, notò come nei testi sacri dell’induismo si parlasse di una città distrutta da creature divine che si spostavano su “carri volanti” chiamati “Vimana”.
Questi velivoli, descritti con abbondanza di particolari, erano in grado di emettere dei fasci energetici che potevano polverizzare tutto quello che colpivano. E se i racconti dei testi sacri indù fossero, al pari della Bibbia, ricordo di qualcosa accaduto per davvero, e poi descritto in un modo un po’ romanzato?
Mohenjo-Daro e il suo mistero
La riposta a tutti questi enigmi forse si potrebbe trovare continuando ad esaminare ciò che resta dell’antica città della valle dell’Indo. Ma gli scavi sono fermi da decenni e, anche se il sito è un bene protetto dall’UNESCO, nel 2017 è stato lanciato un grido d’allarme.
Le condizioni climatiche della zona, che oscilla tra i 50 gradi in estate e le gelate in inverno, potrebbero deteriorare fino alla distruzione quel che resta degli edifici di mattoni e fango. Nel giro di 20 anni, quello che è rimasto di Mohenjo-Daro potrebbe tornare alla terra.
Così la memoria scompare, e ciò che non si capisce vuole essere dimenticato. Meglio accantonare un pensiero fastidioso, che suggerisce che la storia dell’Uomo sia un po’ diversa da come l’abbiamo scritta, che indagarlo a fondo per scoprire una verità che di sicuro ci renderebbe molto più liberi e consapevoli.