Ci sono antiche civiltà delle quali si parla molto e di cui, quindi, supponiamo di sapere tutto. In realtà il passare del tempo frappone tra noi e i nostri antenati degli ostacoli forse invalicabili, o forse solo molto, molto difficili da superare.
La sistematica distruzione della cultura Maya
Ci sono popolazioni antiche di cui non sappiamo molto non perché non ci abbiano lasciato numerose testimonianze di varia natura. Accade che a volte ci sia una volontaria distruzione della memoria. Se uccidere un uomo è un atto deprecabile, ucciderne il ricordo è forse un atto ancora più perverso. Eppure questo è accaduto spesso, specie nei confronti della popolazioni centro-americane.
I Conquistadores europei giunsero e portarono guerra, malattia e morte. I missionari arrivarono e, per imporre la loro cultura e il loro credo, fecero quanto potevano per cancellare ogni rito, ogni mito, ogni tradizione preesistente. Fu così che Diego De Landa, divenuto vescovo dello Yucatan nel 1572, decise di annientare ogni ricordo della civiltà Maya. Lo fece perché avvertiva invece le numerose analogie che esistevano tra la loro spiritualità e il cristianesimo.
Materialmente, Diego De Landa distrusse e fece distruggere statue, libri, manoscritti, reperti che oggi potrebbero esserci di inestimabile aiuto per ricostruire l’identità dei Maya. Questo dato va sempre tenuto presente quando scriviamo o parliamo di popoli vissuti molto prima di noi. Dobbiamo ricordare che tante verità sono state nascoste, o distrutte volontariamente, in quanto entravano in conflitto con il potere vigente.
Per fortuna però l’ardore sacro del vescovo De Landa fu frenato dal sovrano di Spagna. Per una sorta di contrappasso De Landa passò la seconda parte della sua vita a (tentare di) rimediare a quanto aveva fatto. Divenne così uno dei maggiori studiosi della cultura maya e fu anche uno dei primi che tentò di decifrarne la complessa scrittura.
La scrittura Maya e il Codice Troano
Nel 1864 il metodo di traduzione studiato da De Landa fu adottato dall’archeologo belga Brasseur de Bourbourg. Questi lo usò per decifrare uno dei pochissimi manoscritti sopravvissuti alla metodica opera di distruzione operata dagli occidentali sui documenti maya. Si tratta di quello che è conosciuto come Codice di Madrid, e più nello specifico della parte nota come “Codice Troano“.
Nella sua opera di traduzione, Bourbourg comprese che lo scritto parlava di una terra inabissatasi a seguito di un immane cataclisma. Quella terra si chiamava Mu. Oggi la traduzione di Bourbourg viene completamente rifiutata, ma questo non è del tutto corretto. Sappiamo infatti che il metodo fonetico da lui usato per interpretare la scrittura maya, ereditato da De Landa, era errato. Ma non del tutto.
Il vescovo De Landa aveva creduto che ogni simbolo della scrittura maya corrispondesse ad una lettera, un po’ come accade nell’alfabeto latino. Gli studiosi moderni sono più propensi a credere che invece la lettura sia in parte sillabica e in parte iconica. Per dirla in modo più semplice, leggere l’antica lingua maya è un processo molto complicato perché essa si presta a molteplici interpretazioni.
Ergo, non possiamo dire con assoluta certezza che la traduzione di Bourbourg fosse errata, in quanto non abbiamo (non più) sufficienti pietre di paragone. Viceversa De Landa, colui che inventò il sistema di traslitterazione, era quello che aveva avuto maggiori possibilità di consultare scritti per noi perduti per sempre.
Il Popol Vuh
C’è però un manoscritto che non è soggetto a interpretazioni contraddittorie, in quanto a tradurlo dall’antico maya al latino furono i Maya stessi. Coloro che erano sopravvissuti al progressivo sterminio del loro popolo non volevano che usanze e tradizioni venissero dimenticate. Così tradussero uno dei testi più sacri che possedessero, il “Popol Vuh“.
Grazie a questi coraggiosi partigiani della conoscenza oggi noi possiamo conoscere buona parte della complessa mitologia e religione mesoamericana precolombiana. Ciò che leggiamo nel Popol Vuh ha una curiosa assonanza con quello che è scritto nella Bibbia.
Popol Vuh significa “libro della comunità“, il che ci offre già un’anticipazione dei suoi contenuti. Racconta infatti il modo in cui non solo il popolo Maya, ma tutta l’umanità fu creata. La storia della creazione è molto simile a quella della Genesi. All’inizio non c’era nulla ma c’era un “Dio”, un principio creatore che cominciò a modellare l’universo.
Nacquero prima la luce e il cielo. Il mare (le acque primordiali) c’era già. Poi, grazie alla parola (la Bibbia dice “in principio era il verbo”, ovvero la parola generatrice) furono creati gli animali. Che però avevano un difetto: non potevano riconoscere né venerare chi li aveva fatti nascere. Per questo si volle creare anche l’Uomo, un essere che poteva pronunciare il nome del suo creatore.
Il diluvio che diede il via all’umanità
Per creare l’Uomo si procede per tentativi. Il primo, fatto usando il fango, fallisce. Il secondo materiale usato è il legno, a sua volta inadeguato. Gli uomini di legno (senza anima e senza memoria) si erano però moltiplicati. Per annientarli venne scatenato un terribile diluvio. Proprio come nella Bibbia, il cataclisma ha carattere punitivo per dare il via ad una “nuova” umanità gradita agli dei.
Solo dopo questa catastrofe gli dei riuscirono a creare l’Uomo ideale usando il mais. Il Popol Vuh poi prosegue ancora oltre, raccontando tutta l’epopea del popolo Maya. Andando ad analizzare più nel dettaglio questo testo e la Bibbia, si possono riscontrare similitudini davvero impressionanti. Non possiamo dare una datazione precisa al Popol Vuh, sappiamo solo che raccoglie credenze ataviche dei Maya. Anche la Bibbia sfugge ad una datazione precisa.
Due libri, fondamentali per le rispettive culture a cui appartengono, raccontano di un cataclisma, “un diluvio”, che distrusse ciò che c’era e che poi sarà ricostruito ripartendo da zero. I due libri sono stati scritti e concepiti a molti chilometri di distanza, letteralmente in due parti opposte del globo.
I Maya sono coloro a cui si fa risalire una delle prime testimonianze dell’esistenza di Mu, il continente primigenio esistito nell’oceano Pacifico. Sono anche una delle civiltà che fanno presupporre l’esistenza di un altro continente poi distrutto, Atlantide, nel mezzo dell’Atlantico. Ma ci sono tante cose che non sappiamo sui Maya, perché qualcuno decise di distruggere la loro memoria.
Ecco perché oggi non possiamo più escludere nulla, nemmeno le ipotesi più assurde. Se davvero le nostre origini si trovano sul fondo del mare, ciò che lo raccontava è diventato cenere nel vento. Quanto è andato distrutto purtroppo non può essere recuperato: ma è nostro dovere morale cercarne le tracce per capire dove conducono.
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