La Sibilla Appenninica vive sotto la Montagna con la sua corte di fate dai piedi caprini che, nottetempo, discendono a valle per godere della compagnia dei contadini dei borghi. Esse insegnano alle fanciulle le arti casalinghe ma a volte fanno anche qualche dispetto, annodando le criniere dei cavalli. Sono sagge, come Sibilla, ma anche birichine e piene di voglia di giocare.
Cosa c’entrano queste fate con le fate della mitologia celtica, quelle che ritroviamo anche nei racconti di J.M.Barrie, il narratore delle avventure di Peter Pan? Forse niente, forse tutto, ed ecco perchè.
Il Sìdh celtico
L’Oltremondo, per le popolazioni celtiche, è forse qualcosa che non puoi comprendere fino in fondo. Per la nostra cultura, intrisa di dottrina cristiana, la vita dopo la morte implica una punizione o una ricompensa, quindi prevede la discesa agli Inferi o l’ascesa al Paradiso. Alla meno peggio potremmo finire in Purgatorio, una sorta di limbo dove trascorrere un non meglio definito periodo di espiazione.
Per il popolo celtico le cose stavano ben diversamente: dopo la morte c’era una terra meravigliosa che aspettava tutti, dove semplicemente non esistevano le cose che assillano la vita dei mortali, vale a dire la malattia e la morte stessa. Questo luogo a volte era immaginato come un mondo sotterraneo, più spesso come un’isola oltre le nebbie chiamata “Avalon”. Il termine però che in generale era usato per indicare questa terra situata oltre il visibile era “Sìdh“, che vuol dire sia “pace” che “tumulo fatato”.
Il Sìdh dunque era per eccellenza abitato da creature magiche, i Tuatha Dè Dannan. Con questo termine si indicano i grandi eroi e le divinità più importanti le quali, dopo che il loro culto era declinato ed era stato dimenticato dagli uomini, avevano preferito ritirarsi e, per così dire, “rimpicciolirsi”. Così nasce il “piccolo popolo”.
Il Piccolo Popolo
La vasta schiera di creature fatate che popola il folklore anglosassone (fate, gnomi, folletti, elfi) quindi è costituita da coloro che un tempo erano dei e che hanno deciso, volontariamente, di trasferirsi in un altro mondo, un mondo invisibile ma non per questo meno reale di quello degli Uomini, al fine di poter conservare i propri poteri e poter quindi continuare a cooperare con le forze della natura.
Gli dei celtici infatti non erano “personificazioni” degli eventi naturali, come invece accadeva per gli dei greco-romani: erano entità distinte che però facevano parte del flusso delle cose e quindi contribuivano al loro corretto svolgimento. Per questo anche le creature magiche del piccolo popolo traggono il loro potere dalla natura, e dal fatto che lavorano in armonia con essa.
Le fate con i piedi di capra
L’analogia con le fate sibilline salta all’occhio: anche se le fate della regina Sibilla hanno piedi di capra e non hanno ali, anzi, con il loro passo pesante segnano i sentieri montani, il loro potere è lo stesso delle eteree fate del Sìdh. Esse conoscono e amano la natura, proteggono le creature naturali, vivono in armonia con il soffio del vento, il sorgere e il tramontare del Sole, i cicli lunari. Vivono in una grotta, e spesso è una grotta la porta d’ingresso al Sìdh.
Deve però restare chiaro un concetto: il Sìdh, Avalon, la Grotta di Sibilla, non sono luoghi irreali, non sono il Regno delle Anime. Sono luoghi tangibili che fanno parte di un Universo in cui Visibile e Invisibile convivono, e non potrebbe essere altrimenti, poiché il Tutto deve sempre essere formato da due metà diverse.
Tu credi nelle fate?
I pastori scozzesi non si sognerebbero mai di mettere in dubbio l’esistenza del piccolo popolo: sanno bene quanto i suoi componenti possano essere vendicativi nei confronti degli scettici. Questo perché sono dotati della seconda vista che permettere di scorgere l’Invisibile. Per chi vive nelle grandi città di cemento e di acciaio credere è diventato decisamente più difficile, ma questo non è un buon motivo per perdere la fede.
Nel 1922 sir Arthur Conan Doyle, che forse conosci nella veste di scrittore delle indagini di Sherlock Holmes, pubblicò un libro intitolato “The coming of the Fairies“ (“Il ritorno delle fate”) in cui applicava il celebre metodo deduttivo del suo investigatore per provare, senza ombra di dubbio, che le fate esistono. Ma davvero servono prove? Non basta osservare il mondo in una limpida giornata di Sole?
Oltre ciò che lo sguardo vede c’è quello che il cuore sente. E se ascolti bene, e cerchi di ritrovare nel tuo stesso respiro il movimento delle maree, capirai che un tempo c’erano dei che camminavano sulla Terra con gli uomini e che li aiutavano a fare in modo che tutto scorresse come doveva. Quegli dei un giorno furono cacciati, ma anziché andarsene e abbandonarci hanno preferito diventare entità discrete.
Essendo dei, che sanno benissimo di esistere, non hanno bisogno che qualcuno confermi la loro esistenza: per questo non ci impongono la loro presenza. Ma se guardi tra le foglie di un cespuglio, se osservi di notte tra le fronde degli alberi, scoprirai piccole luci remote come stelle. Allora puoi decidere se pensare che non sono altro che insetti, o se spalancare le porte del Sìdh.
Se lasciassimo che le fate tornassero davvero, come scriveva sir Arthur Conan Doyle, se permettessimo alla vita di stupirci e facessimo pace con il mondo in cui viviamo, le nostre esistenze sarebbero più ricche e appaganti e infine potremmo percorrere la strada che conduce alla Felicità.
“Il giorno che uccideremo Babbo Natale con le statistiche, avremo fatto cadere il nostro mondo glorioso in una profonda oscurità” – The South Wales Argus in difesa di sir Arthur Conan Doyle