Antikythera è un’isola il cui nome vuol dire, letteralmente, al lato opposto di Kythera (Citera). Citera è un’isola greca dove, si racconta, nacque Afrodite, la dea della bellezza nota ai Romani come Venere. Antikythera è un’isola ad essa speculare e, ai tempi in cui si svolge la nostra storia, era nota con il nome di Cerigotto, in quanto era stata posseduta dalla Repubblica di Venezia che l’aveva così ribattezzata.
Nelle acque sottostanti Cerigotto agli inizi del XX secolo fu fatto un ritrovamento archeologico che ancora oggi non smette di creare qualche grattacapo a studiosi e ricercatori. Addirittura è stato creato un progetto di ricerca per svelarne ogni mistero: l’AMRP (Antikythera Mechanism Research Project). L’oggetto ritrovato è uno strano meccanismo oggi noto semplicemente come “il meccanismo di Antikythera” o “la macchina di Anticitera“.
Un “giocattolo” a lungo incompreso
Nel 1901 un gruppo di pescatori di spugne fu colto da un violento fortunale nei pressi del Peloponneso e fu costretto a riparare a Cerigotto ad aspettare che la tempesta passasse. Quando tornò il bel tempo, i marinai decisero di fare qualche immersione sul posto, già che c’erano. Trovarono ben altro che spugne.
A circa 43 metri di profondità scoprirono un antico relitto di nave romana carico di molti oggetti preziosi, tra cui numerose statue di bronzo e oggetti in porcellana. Subito avvisarono le autorità e gli archeologi si misero al lavoro. Durante una seconda spedizione, nel 1902, alcuni sub restarono intossicati e uno morì, a causa degli effetti dell’immersione.
Intanto Valerios Stais, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Atene, stava esaminando i reperti portati fuori dal Mar Egeo. Era allibito da tanta bellezza e ricchezza: in seguito si ipotizzò che i beni caricati su quella nave dovessero essere portati a Roma per il trionfo di Cesare.
Tra le altre cose c’era un blocco informe a cui dapprima Stais non aveva prestato attenzione. Guardandolo meglio, trasecolò. Vide ingranaggi, ruote, e altri meccanismi in bronzo. Quello che aveva in mano era un antico congegno, racchiuso in una cornice di legno di centimetri 30×15, il cui uso gli appariva in quel momento ignoto.
Un OOPArt dai reconditi significati
Per molti anni l’oggetto rimase da un lato, classificato come curioso giocattolo per bambini (come spesso accade ai reperti a cui non si sa dare una definizione) o come OOPArt. Il suo aspetto faceva infatti tanto pensare ad un calcolatore elettronico, o ad un orologio. Fu solo negli anni Cinquanta che qualcuno si mise d’impegno per capire che cosa fosse quello strano ritrovamento.
Derek John de Solla Price, storico e scienziato inglese, decise di sottoporre l’oggetto ai raggi X e trascorse il resto della sua vita (è morto nel 1983) a cercare di decifrare quello che riuscì a vedere. Scoprì che a tutti gli effetti quello che aveva tra le mani era un meccanismo, molto sofisticato, fatto di ingranaggi anche minuscoli, di uno o due millimetri.
Sul corpo del meccanismo di Antikythera c’erano numerose iscrizioni in greco comune, e poi c’era una piccola sfera che raffigurava la Luna. Poco alla volta, Price comprese che l’oggetto era una sorta di complesso astrolabio, ma anche di più. Il meccanismo di Antikythera poteva calcolare il passare degli anni, le fasi lunari, le eclissi di Luna e di Sole, e chissà che altro.
La cosa più incredibile di tutte è che la tecnologia usata per costruire quel macchinario sarebbe stata possibile solo secoli dopo. Il meccanismo di Antikythera, infatti, è stato datato tra il 100 e il 150 avanti Cristo. Ma strumenti simili risalgono solo a molto tempo dopo, al XV secolo.
Gli ultimi sviluppi sul meccanismo di Atikythera
Price morì senza aver soddisfatto la sua curiosità: a che serviva il meccanismo di Antikythera? Ancora oggi non sappiamo dare una risposta, anche se abbiamo in mano qualche elemento in più. Ricerche condotte in anni recenti da Alexander Jones, storico dell’Institute for the Study of the Ancient World della New York University, dimostrano come il macchinario potesse fare molte cose.
Era un calendario, quindi serviva a misurare il tempo non come orologio, ma in termini di ricorrenze astronomiche. Riportava le posizioni dei pianeti allora noti (Venere, Marte, Saturno, Giove e Mercurio) nei vari periodi dell’anno. Calcolava le eclissi, come già visto, ma anche la data in cui si sarebbero tenute le prossime Olimpiadi. Inoltre prevedeva anche il tempo meteorologico.
La cosa che maggiormente stupisce è il funzionamento ad ingranaggi, che dovevano essere azionati da una manovella. Molti altri pezzi mancanti del meccanismofurono ritrovati negli anni Settanta, da una spedizione di Jacques Cousteau. Qualche anno fa si è scoperto, dopo anni in cui le ricerche si erano fermate, che sotto al mare di Antikythera ci sono altre meraviglie che attendono di tornare alla luce, perché la nave romana era molto più grande di quanto creduto in un primo momento.
Il retaggio di conoscenze antiche
Oggi puoi ammirare il meccanismo di Antikythera, e alcune sue ricostruzioni, presso il Museo Archeologico di Atene. Si ritiene che sia stato costruito a Rodi da Ipparco, uno dei primi studiosi che ipotizzò, senza riuscire a provarlo, che fosse la Terra a ruotare attorno al Sole.
Le iscrizioni che circondano l’oggetto sono state in gran parte decifrate, visto che sono scritte in greco antico, lingua morta ma ben nota. Sono una sorta di “manuale di istruzioni” ma non tecnico, quanto più, come è stato detto, “filosofico“. Spiegano infatti il motivo per cui il meccanismo di Antikythera è stato costruito.
Ma non spiegano chi lo usasse, o perché. Si è ipotizzato che fosse una sorta di compendio per scolari, o una “cineseria” per una famiglia ricca. Fu costruito in bronzo, con cura artigianale, pezzo per pezzo. Forse non era l’unico macchinario del genere esistente all’epoca. Alcuni lo hanno definito “il primo computer“.
Un ricordo da molto lontano
Stupisce assai vedere un prodotto così moderno in mano agli antichi Greci, di cui presumiamo di sapere tutto, o quasi. Sembrerebbe come se si fosse creato un vuoto, un salto temporale: c’erano grandi conoscenze che sono andate perdute, e poi recuperate dopo secoli e millenni. Perché?
Forse perché ai Greci quelle conoscenze vennero tramandate da qualcun’altro. Ipparco, del quale non ci è rimasta alcuna opera di prima mano, secondo le fonti che abbiamo e che ci parlano di lui aveva visitato la biblioteca di Alessandria e aveva studiato a Babilonia, dove probabilmente aveva avuto accesso a documenti o manufatti per noi perduti per sempre.
Forse la sua macchina, che per lui stesso e i suoi contemporanei doveva rappresentare una meraviglia, era il ricordo di un passato ancora più antico, di quando sulla Terra esisteva un popolo molto più evoluto e progredito tecnologicamente. I Greci non possedevano più le sue conoscenze, ma cercavano di ricordare, e di copiare.
Si spiegherebbe così l’anomalia del meccanismo di Antikythera: con l’esistenza di Atlantide nel mezzo dell’Oceano, che aveva lasciato le sue tracce, per lo più ormai incomprensibili ma terribilmente affascinanti. I Greci erano ancora in grado di avere curiosità e spirito di emulazione. Per noi oggi Atlantide è una favola, ma è una favola che spunta qua e là, più spesso di quanto non si vorrebbe, con tutta l’apparenza di essere una storia vera.